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Lettera di una madre vittima di Alienazione Parentale al suo bambino


E' giunta alla nostra redazione una lettera di una mamma, una donna privata dei suoi bambini, un dolore difficile da affrontare.

Trattato con estremo tatto e sentimento.


UNA PREMESSA

La mia vita si è interrotta un giorno di molti, troppi mesi fa, anni oramai. E ancora non mi è stato possibile ritrovare il bandolo di questa mia esistenza che avanza (ma avanza?) in un futuro che non so più se esiste.

Io però, per forma mentis, ogni volta che mi sono trovata a fare i conti con la mia storia ho sempre cercato di analizzarla e ora, di nuovo, sono qui a scriverla questa “mia vita”: lo faccio perché da sempre la scrittura è per me un potente strumento di autoanalisi e insieme un mezzo salvifico, mi apre varchi di comprensione e chiavi di lettura utili ad uscire dallo sconforto, dal dolore, dalla rabbia, per oppormi agli schiaffi che non mi sono certo stati risparmiati, per capire gli altri e cercare di ricomporre questo puzzle disordinato di cui mi ritrovo a cercare tessere perdute.

Ripercorrere a ritroso la storia di questi miei ultimi due anni e, prima ancora, di quelli precedenti, è per me un percorso straziante ma necessario. Ad un certo punto mi è stato persino imposto da uno psicologo: era “gradita” l’autocritica –mi ha fatto presente- questo per me non era un problema: lo faccio per abitudine, come modus vivendi, per capire e capirmi. Quello che semmai mi risultava nuovo è stato l’interesse “esterno” alla mia autoanalisi e, a fronte dell’esposizione ragionata di ciò che con assoluta sincerità raccontavo, l’interpretazione che gli “esperti” ne hanno tratto: sono improvvisamente diventata “istrionica”, senza nemmeno che mi fosse detto cosa si intendesse e perché! Peccato che mi fosse stato consigliato (in modo prescrittivo) di NON ESSERE VALUTANTE MA DESCRITTIVA e la descrizione – almeno per me – è articolata, ricca di particolari e colorita da aggettivi, non saprei come altro descrivere fatti che mi riguardano da vicino e che, toccando i miei affetti più cari, ovviamente mi coinvolgono stravolgendo la mia vita ogni giorno un po’ di più. Il mio stupore è stato grande quando mi sono resa conto che i giudizi crudeli del mio ex marito hanno pagato di più del mio tentativo di descrivere pacatamente i fatti, astenendomi dalle critiche cariche di emotività: incomprensibile, a mio avviso, professionalmente scorretto, sicuramente eticamente squallido ma vero!

Ma mi rendo conto di avere iniziato, se non dalla fine, almeno da metà della mia storia, quindi è doveroso un passo indietro.


LA VITA E LA SUA STORIA

La vita, si sa, segue un suo andamento rettilineo dal passato al presente. Si sa… o almeno così dovrebbe essere: capita invece talvolta che, come un respiro trattenuto, come un freno d’emergenza tirato durante la corsa di un treno, come un tuffo a capofitto nel mare giù verso il fondo, tutto si fermi, si blocchi. La vita dovrebbe anche svolgersi verso il futuro ma questo è impossibile da sapersi, potrebbe importi la parola fine nel bel mezzo del percorso. La vita a volte è chiara nei suoi nessi logico-cronologici, a volte –per quanto tu possa sforzarti di capire- non ti dà risposte, resta muta e tu –soprattutto quando sei stato da essa malmenato- rimani basito.

Questo accade nella vita, altro è il suo racconto. Parlare della vita infatti può anche non essere operazione semplice e chiara, si può procedere zigzagando e spesso si cercano indietro le cause dell’oggi, talvolta le si trovano, altre volte no; raccontando la vita spesso ci si scopre a chiederci insistentemente come sarà il futuro che ci sarà riservato ma questo privilegio (o questa condanna) ci viene negato. Il racconto della vita a volte è nitido e regolare, a volte parte da una linea (retta no, quasi mai, ma almeno unica e direzionata) per aprirsi in un ventaglio di variabili, a volte riunisce tanti percorsi in un unico punto. La narratologia ci insegna che la vita è una “fabula” mentre il suo racconto spesso è un “intreccio”. Come in letteratura, anche nella vita raccontata, la riflessione sui fatti accaduti può essere complicata e di difficile decifrazione.

In questo caso la mia storia parte per poi tornare indietro sul filo dei fatti in un faticoso sforzo di comprensione poi riprende il suo fluire in avanti riflettendo man mano sui personaggi e sulle loro azioni: ogni attore è inchiodato alle sue decisioni, alle sue scelte, alle reazioni che queste hanno provocato.


REWIND, DUNQUE

Sono una madre a cui hanno rapito i figli da oltre 2 anni.

Sono una madre che con un dolore lacerante, una disperazione inimmaginabile, un infinito sconcerto, tanta rabbia e la preoccupazione di tre vite lese cerca di sopravvivere: a volte aggrappata alla vita –non so neppure io come-, più spesso sospesa sulla morte.

Lo dico senza la preoccupazione di essere giudicata: tanti in questi lunghissimi mesi, in questi interminabili anni lo hanno fatto, io non ho assolutamente più nulla da perdere e soprattutto sfido quelli che sono alla finestra a guardare, a volte pronti a giudicare o –peggio- infimi attori/pessimi protagonisti di questa bruttura, a vivere un giorno (invero basterebbe un solo istante) nella situazione angosciante in cui hanno costretto me, vorrei vederli e osservare le loro reazioni e scommettere che –se solo avessero un cuore sospeso nella gabbia toracica- condividerebbero le emozioni devastanti che provo io.

Silenzio e ascolto ci vorrebbe. Silenzio e ascolto allora vi chiedo.

Ho grande interesse e conoscenza di quel che accade agli adolescenti: sono mamma da 15 anni, sono insegnante nel segmento d’età 10-14 anni da 27 anni e -certamente anche per tutto ciò- mi sono sempre interessata di psicologia e delle relazioni tra mondo adulto e mondo che adulto non è ma crede di esserlo/si accinge ad esserlo. Siccome una frase celebre recita “nessuno nasce imparato” io, davanti ai mille dubbi e al tanto impegno che comporta essere genitore, mi sono accorta dei miei tentennamenti, ho ammesso i miei limiti e ho cercato risposte alle tante domande che i miei figli ogni giorno mi suggerivano. Probabilmente conoscendomi lo avrei fatto comunque ma da quando sono diventata mamma il “mondo” attorno a me (quello ristrettissimo, quello che dovrebbe supportarti e fare la strada insieme a te, quello che dovrebbe intervenire quando tu sei schiantata dalla fatica, dalle preoccupazioni, quello a cui si spererebbe di potersi riferire con fiducia e assoluta tranquillità: l’altro genitore e poche altre figure, insomma) ha lavorato per squalificarmi, contraddirmi, falsificare la mia immagine, rimproverarmi e smentirmi e tanto altro di grave che pende da anni nelle aule giudiziarie in attesa di una pronuncia definitiva (e tale sarà solo quando sarà giusta, prima non mi fermerò).

La mia storia, dolorosamente chiara per me e per i miei figli, pare confondersi, perdere nitidezza, essere messa in dubbio da quanti si trovano a parlarne. Per tutto questo ho cercato certezze e modalità educative, principi teorici e comportamenti, risposte e conferme in ogni modo possibile: da brava apprendista-mamma, ho frequentato corsi e percorsi di conoscenza -davvero tanti-, ho cercato di prepararmi e fare tanta autoanalisi (figuriamoci se avevo bisogno di un’esplicita richiesta in tal senso!): ogni volta mi sono portata a casa riflessioni e concetti, conoscenze e… un’unica sicurezza: fare il genitore in due è difficilissimo ma ti permette di appoggiarti all’altro di fronte ad un ostacolo, avere un confronto davanti ad una crisi, un sostegno con cui condividere le gioie e le fatiche; fare il genitore da solo è ancora più complicato e faticoso ma ancora fattibile; farlo avversato con caparbia, contrastato sistematicamente e continuamente disconfermato, è un’impresa titanica. Rispetto alla mia solitaria avventura di mamma e alle domande che ponevo non ho avuto risposta alcuna dai relatori, nessuna password da inserire per procedere, nessun lascia-passare per avanzare lungo il percorso.

Mi passano per la mente tanti visi, tanti gruppi, tante parole: ogni esperienza è stata utile e mi ha consegnato un pezzetto di me da mettere a frutto nelle relazione con i miei figli. Forse l’idea che do è quella di una disperata che si disperde alla ricerca di una parola illuminata e risolutiva: così non è. C’è e c’è sempre stata la voglia e il bisogno di apprendere per capire ma poi, quando arriva il momento applicativo, quanto hai ascoltato e imparato va calato nella realtà e tutto diventa più complicato.


MAMMA/NON MAMMA

Ho due figli. Due figli fantastici, meravigliosi e faticosi, sento che la mia vita inizia e finisce con loro. E’ proprio così. Probabilmente è così per tutti i genitori, per tutte le madri. Per me forse lo è di più perché ho due figli ma non ho un marito. Ho due figli ma loro hanno un padre? Ho due figli ma per motivi diversi non ho una famiglia alle spalle.

Ho due figli, dunque: la più grande è una bellissima adolescente tormentata, il secondo lo vedo ancora come un bambino, dolce ma volitivo, coccoloso, innamorato di sua sorella. A casa, in famiglia, la “ricetta relazionale” che uso anche in aula trasformava l’affetto in amore viscerale: ogni mancanza o incomprensione si faceva sofferenza sorda; un broncio o un’arrabbiatura diventavano uno strappo doloroso a cui porre rimedio con un sorriso e un accordo che aprivano il cuore e pacificavano l’animo; una porta sbattuta era una stilettata rovente.

Ho due figli. Ho due figli. Ho due figli.

No, per me non è ovvio dirlo e ripetermelo perché per me avere i MIEI figli non è scontato. No, ripetere che io sono la mamma dei miei due figli non è un dato di fato visto che io non ho più i miei figli. Riesco a dire queste sette parole solo da pochi mesi, gli ultimi di questa straziante esperienza di morte assoluta. Ho letto un articolo in cui viene spiegato perfettamente che le persone a cui capita ciò che è capitato a me si vergognano. Verissimo: ti vergogni di ciò che ti è successo perché anche se hai la certezza di non aver fatto nulla di male, di aver portato avanti il tuo difficilissimo e delicatissimo compito di genitore (unico genitore, solo!) in modo adeguato, di aver costruito relazioni significative, dense, vitali con i tuoi figli, nonostante ti sia sempre fatta carico di ogni scelta in modo responsabile e consapevole, nonostante tu abbia preso spesso decisioni difficili e faticose, nonostante tu sia sempre stata attenta e aperta all’ascolto, ai consigli, non abbia mai sottovalutato o rimosso i problemi, abbia alzato la voce e ti sia esposta sempre per difendere i cuccioli come ogni leonessa fa, nonostante tutto può capitare che ALTRI ti dicano che non hai più i tuoi figli, può succedere che -come rapitori- si possa andare a prelevare da scuola i tuoi figli per allontanarteli. Ho scoperto sulla mia pelle quello che avevo studiato sui libri: ho capito tra le lacrime che cos’è la VIOLENZA ISTITUZIONALE, l’ALIENAZIONE PARENTALE e lo STIGMA SOCIALE che attiva un processo di VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA. Possono sembrare termini oscuri di un trattato di psicologia… possono… per me sono schegge nella carne viva.


“NEL MEZZO DEL CAMMIN DI NOSTRA VITA”

Tante volte in questi lunghi, terribili, ignobili mesi mi sono chiesta “perché” e mi è stato chiesto “perché”; in verità quelli che mi hanno rivolto un “perché” interrogativo e si sono posti in atteggiamento di ascolto (mai comunque di comprensione sincera) sono stati davvero pochi, i più hanno affermato un perché, che era il loro perché, magari aspettando che io lo condividessi. Ma io non potrò mai sottoscrivere una motivazione che mi è totalmente estranea, che non appartiene alla mia vita, al mio modo di essere, alla mia esperienza di madre. In tanti hanno provato a fare il gioco delle tre carte tentando di prendermi nel labirinto degli “agiti”, dei “percepiti” e dei “narrati” ma io nella confusione di questi piani non mi perdo e non permetto ad altri di imbrigliarmi: io c’ero, ci sono sempre stata, i miei figli hanno avuto solo la mamma e io solo i miei figli… non si può pensare di farmi cadere nella loro trappola di specchi deformanti. Soprattutto ora che il dolore assoluto, lo strazio lancinante, la consapevolezza di un’assurda crudeltà, lo choc devastante lasciano appena lo spazio di ragionare, di trovare significato a ciò che un significato non ha e non potrà MAI avere.

A tutti i “perché” che hanno martoriato la mia testa io non riuscivo a dare una risposta sensata. Com’è possibile che una figlia amata possa essersi scagliata improvvisamente e crudelmente contro la sua mamma? Com’è possibile abbia deciso di lasciare a 12 anni la sua casa, la sua stanza, tutti i suoi oggetti, i suoi vestiti e sia uscita dalla porta di nascosto come una ladra? Com’è possibile abbia coinvolto in questa folle scelta suo fratello che –ancora lontano dall’età dell’adolescenza- dormiva ancora con la mamma e non capiva quella sua sorella ultimamente ribelle e con lui molto critica? Com’è possibile che mia figlia, con la sua scelta, abbia prestato il fianco ad una parente del mio ex marito, a quell’anziana di cui mi fidavo e che invece si è rivelata una serpe, semplicemente ed esattamente un essere squallido e crudele che ha sacrificato alla sua maternità frustrata mia figlia e, insieme a lei, mio figlio?

Una mattina di Dicembre di due anni fa (tre giorni prima del compleanno di mia figlia, sette giorni prima del mio compleanno… io e lei, unite anche in questo!) mi sono ritrovata in una selva oscura e lì ho capito che la mia via era smarrita, che la mia vita lì si era fermata.

Da lì, mentre faticosamente ho cominciato a conquistarmi ora per ora, giorno per giorno, settimana dopo settimana, un futuro che non so neppure più se mi interessa perseguire, da quel punto esatto ho iniziato ad analizzare i personaggi di questo grottesco gioco delle parti.

Su tutti mi sono trovata a ripensare ad una donna, a colei che ha scientemente lavorato alle mie spalle, preparandosi il terreno per lunghi anni, pazientando nella sua femminilità fallita, fino a trovare una falla nel rapporto di amore assoluto che legava me e i miei figli; questa vecchia sterile, questa non-madre, questo arido essere ignobilmente opportunista e oscenamente calcolatore ha atteso di vedere uno sprazzo di ribellione lampeggiare negli occhi della mia bellissima adolescente per lacerare un legame fino ad allora assoluto.


UN ASSIOMA

Questa mia storia di maternità rubata, di vita sospesa e di donna offesa si fonda su un postulato che va accettato come assioma imprescindibile: io non ho mai maltrattato i miei figli, non li ho “massacrati”, non li ho certamente messi in una situazione di “grave pregiudizio” che solo l’aggettivo “presunto” attenua, io non ho commesso i fatti imputatimi, non ho le responsabilità che mi addebitano coloro che hanno preso una decisione assurda, crudele e totalmente immotivata (lo dice la mia vita e lo dice la legge). I miei figli io li ho solamente cresciuti e faticosamente educati, a volte con rigidità -non per scelta ma perché la situazione era obbligata visto il deserto tutto attorno-, molto più spesso con affetto, condivisione, con tutta la serenità possibile (fatta salva la realtà dei fatti), con le distruggiate di coccole e una comprensione così indubitabile da farmi sempre paladina a loro difesa, testa d’ariete e scudo di fronte ad ogni loro delusione. Tutto questo lo dico io, lo dicono tutti quelli che mi hanno conosciuto come madre e lo dicevano i miei figli fino al 4 Dicembre 2015.


In tutta questa storia una considerazione è lampante: il percorso di mio figlio nulla ha a che fare con quello di sua sorella. Se “la mia adolescente” doveva restare a casa sua e qui, insieme, si dovevano affrontare le difficoltà, perché così accade in tutte le famiglie -dove non ci sia un complotto e una complottante coadiuvata da tante altre complottanti (il genere femminile non è qui un refuso ma una precisa scelta linguistica)-, a maggior ragione questo doveva capitare a lui, al mio tenerone, che -ad avviso di tutti quelli che lo conoscono, che ci conoscono- non aveva nessun problema relazionale: se ora ne ha gli sono stati creati, calati addosso colpevolmente, attribuiti immotivatamente. Io credo che se mio figlio ha delle chiusure, delle riottosità ad aprirsi è perché non si fida più di nessuno (e perché mai lo dovrebbe fare? chi lo farebbe al suo posto?) e probabilmente a casa di “quella donna” già da tempo subiva indagini e pressioni. Sua sorella, poi, facendo leva sull'affetto assoluto del fratello e sull'autorità derivatale dalla maggiore età, lo ha convinto che i fatti erano così come lei glieli interpretava e lui ha condiviso i suoi giudizi, le sue accuse e le sue parole.

Io però ora ho quadrato il cerchio, io ho completato il puzzle.

Ero già da tempo convinta che questa situazione era stata pianificata ad arte, pregustata e organizzata per sfruttare la prima buona situazione. Oggi ho messo insieme tutte le tessere di questo rompicapo e sono convinta di quello che ora cercherò di spiegare proprio perché tutto ha preso il suo posto, tutto.


RITORNO AL PASSATO

Per me è ormai tristemente evidente che le difficoltà che mia figlia ha avuto fin dalle elementari (e sarebbe illuminante ascoltare la sua Maestra ora, come io l’ho ascoltata allora) quando si sentiva sempre esclusa, mai considerata abbastanza, sono state i lontani segnali di quello che poi sarebbe esploso; questi problemi si sono aggravati con l’arrivo della preadolescenza e i primi anni delle Medie: credo che nessuno di chi mi conosce da qualche anno possa affermare che io non l’abbia detto, che io non ne fossi conscia e preoccupata, che non l’abbia evidenziato ai Servizi Sociali, che non ne abbia parlato con le Insegnanti, con lo psicologo scolastico e poi… purtroppo… abbia deciso di rivolgermi alla “psicologa di fama”. “Purtroppo” perché l’amicizia pregressa con la “parente-serpe” e l’idea che le difficoltà invece di essere dipanate e appianate, di essere prese per mano e aiutate, debbano essere fatte deflagrare come bombe atomiche, hanno creato le condizioni affinché quella donna (e ogni volta che userò per lei questo appellativo mi morderò la lingua perché so bene di sporcarlo: lei “donna” non è!) potesse poi andare a segno. Nel basket si direbbe che la “psicologa di fama/sua amica” le ha passato un assist vincente, e i tempi e l’intesa sono stati così millimetrici che il passaggio sotto canestro si è concluso con una schiacciata da frantumazione del tabellone.

Io non concordo con l’equazione semplicistica ANORESSIA = DIFFICOLTÀ DI RAPPORTO CON LA MADRE; inesperta della questione ho chiesto pareri al riguardo e ho visto occhi strabuzzare di fronte a questa implicazione così netta e deterministica. Forse –ho pensato- sarà vero nella maggior parte dei casi ma nella mia storia non lo è. Poi poco tempo fa ho scoperto che anche questo non è vero: un’indagine statistica effettuata nella mia Provincia mi ha rivelato che quasi metà delle adolescenti si considera “grassa/molto grassa” e una gran parte di queste è a dieta perenne: tutte adolescenti con problemi di relazione con la madre allora? No, sono convinta invece che sia una delle possibili manifestazioni degli adolescenti che contestano gli altri e sono capaci di una crudeltà etero e auto-rivolta di inaudita violenza: si confrontano impietosamente con i coetanei, si valutano e cercano il capro espiatorio su cui scaricare ciò che a loro avviso non va. Purtroppo la mia devastante esperienza mi ha anche portato a scoprire il mondo squallido e pericoloso, sommerso ma in agguato dei siti PRO-ANA (se non sapete cosa sono e avete figlie adolescenti vi consiglio di documentarvi e, magari, denunciare queste ragazzine decerebrate che insegnano come dimagrire e morire di magrezza): avrei preferito non sapere mai cosa sono questi sfiatatoi virtuali di psicopatologia, cosa vi si può trovare dentro ma, ai fini del mio percorso di comprensione, sono stati un indizio importante.

Faccio il punto della situazione: bassa autostima sì, bisogno di piacersi sì, demenziali vademecum PRO-ANA sì, confronto rabbioso con “le altre” sì, conflitti con la madre… no!

Non c’è infatti un’unica riga –delle tante scritte da mia figlia e trovate sparse per casa quando sono rimasta sola - dove anche solo lontanamente mi si dia qualche colpa o ci sia scritto che io la trattavo male; ogni suo scritto (e tra questi quello condiviso sul suo profilo Instagram dal nome suggestivo quanto artefatto), ogni suo narrato negli ultimi anni parla sempre e solo di un suo senso di inadeguatezza nei confronti delle coetanee (loro belle e soprattutto magre e lei… “una balena con gli occhi a palla”), delle prese in giro dei compagni (vere? presunte? immaginate?), dell’isolamento che lei sentiva e che imputava al fatto di “non essere come gli altri/come le altre”, inadeguata rispetto ai modelli. Io credo/sono fermamente convinta che il suo malessere nasca dal confronto deformato e soggettivo tra se stessa e “le altre”, dal bisogno di uniformarsi allo standard delle “Barbie” –così le chiamava-, di confondersi nel gruppo in cui riconoscersi e da cui essere riconosciuta: questo bisogno di sentirsi parte del gruppo so bene –lo vedo a scuola tutti i giorni- è una costante, un bisogno adolescenziale ma in lei –sicuramente particolarmente fragile e insicura- risuonava come un diapason.

Credo poi che il suo “problema-peso” fosse amplificato e rimpallato dall’immagine del padre di cui lei si vergognava e che –soprattutto a scuola, guarda caso- non voleva che in nessun modo fosse associato a lei, quel padre tanto obeso e disordinato da essere impresentabile, quel padre che dall’estate precedente lei aveva deciso di escludere dal suo mondo etichettandolo semplicemente e nettamente come “inadeguato”. Io so bene (ma basterebbe un briciolo di sincerità, un minimo accenno di onestà intellettuale perché l’assistente sociale, la psicologa “della mutua” e la psicologa “di gran fama” confermassero) gli sforzi fatti per fare almeno parlare mia figlia con il padre, perché trovassero l’occasione per spiegarsi, perché lui l’ascoltasse. Tutto inutile: lei chiusa e ostile, io –a dire del padre- la “colpa di tutto”, come al solito.

Mia figlia, che mi rendo conto è molto simile a me, a quel punto si è posta un obiettivo e ha deciso di perseguirlo e conseguirlo con caparbia: dimagrire fino a diventare lei stessa una “Barbie” e costruirsi quindi il passaporto necessario per entrare nel gruppo.

Chissà se ora si sente parte del gruppo?

Chissà se il gruppo l’ha inclusa e chissà se ora si sente accettata dai compagni?

Chissà se finalmente è contenta di sé?

Secondo me lei –molto prima di me- si è resa conto che io mi sarei opposta con tutte le forze al suo “piano”, che avrei fatto qualsiasi cosa per farla desistere, che avrei cercato di convincerla che lei era bella e giusta così com'era.

In questa situazione mia figlia ha trovato un’alleata diabolica in quella vecchia donna obesa, parte di una famiglia di grandi obesi. Questa donna, sempre irrisa –persino da sua madre- perché grassa, ha trovato chi plasmare: mia figlia.

Mi sono domandata perché invece di sobillare i miei figli non abbia preso di mira le sue grasse nipoti/il suo grasso nipote… in realtà la domanda è puramente retorica, so bene perché non l’ha fatto. Conosco i miei figli e so perfettamente che creature sono! Se si vuole rubare, meglio scegliere il gioiello più bello, la pietra più scintillante, l’opera d’arte più ambita, la gemma più preziosa. Se si decide di rubare non si ruba a casa propria.

Quindi questa non-madre ha ovviamente accolto e supportato, ha accettato il progetto di mia figlia (tanto in definitiva non è mica figlia sua!) arrivando persino a dire alle sue insegnanti –inorridite- che “ha fatto bene (!!!) a dimagrire 30 kg (in pochi mesi???) perché viene da una famiglia di grandi obesi (la sua)”: una madre non potrebbe mai arrivare a dire un’oscenità simile! Ma chi madre non è ma gioca ad esserlo non può capire la differenza tra una concessione lecita o un capriccio di poco conto e un rischio reale, un pericolo mortale come l’anoressia.

Mia figlia dunque aveva capito: io, molto dopo di lei. Solo in seguito –in verità forse solo ora che come ho detto sono riuscita a ricomporre il puzzle ne ho la piena consapevolezza- mi sono infatti resa conto che io non avrei mai potuto sopportare il suo progetto suicida: quando un giorno, dopo tanti mesi di lontananza, l’ho vista per caso per strada, riconoscendola dalla sola voce, sono stata “brava”: mi sono imposta di farle i complimenti e dirle che era molto carina ma in realtà ho pensato che sembrava una gru, che il suo viso scarnificato aveva perso la grazia e tutta la dolcezza di prima, che con quel collo lungo e quella testolina in cima sembrava un uccellino caduto dal nido, che quel ventre incavato parlava di una ragazzina ammalata. Ora era davvero una di quelle “Barbie” tutte uguali!

Mia figlia sapeva bene che io non le avrei permesso di ridursi così, non in questo modo almeno. E lo sapeva così bene da provocarmi proprio sempre e solo sull'argomento “cibo” e da umiliare suo fratello sempre sullo stesso tema. Lei sapeva che per la prima volta in vita sua non avrebbe avuto la mamma dalla sua parte, che avrebbe dovuto combattermi per realizzare il suo progetto. Lei sapeva bene che da quella vecchia non-madre avrebbe invece trovato l’appoggio alla distruzione che cercava e che da me non avrebbe ricevuto; sono sicura che nei mesi precedenti quella donna diabolica ha avuto modo di abbindolarla, di farla sentire compresa e di garantirle protezione dalla sua mamma diventata ora scomoda. Mia figlia si è allora affidata ad una persona segnata tanto dall'obesità, quanto evidentemente dalla mancata maternità, che le ha detto che faceva bene a dimagrire. Ma come? A che prezzo?

Mia figlia si è fidata anche di un’altra donna che l’ha messa irresponsabilmente al centro dei “suoi diritti” (“la Convenzione di New York” mi ha sbattuto in faccia mia figlia!), su un piedistallo fittizio e illusorio, senza spiegarle che a 12 anni si ha ancora bisogno ed è necessario fidarsi della mamma (se altro all'orizzonte non c’è!) e percorrere insieme la strada, anche se faticosa, anche se irta di ostacoli e scontri.

Ancora: mia figlia si è affidata ad un’altra delle “sue psicologhe” –così le chiama mia figlia-che la sottoponeva a test psicodiagnostici non autorizzati dall'unica persona che poteva e doveva farlo (io, sua madre, io che avevo ed ho –nonostante i tentativi maldestri dei servizi-sociosanitari che, tra irregolarità e malafede, stanno tenendomi lontana dai miei figli- l’affidamento esclusivo): anche questa un’altra non-madre che ha miracolosamente e istantaneamente riavvicinato mia figlia al padre ma in 10 mesi non ha mai voluto consegnarle la lettera in cui io le esprimevo il mio amore e l’orgoglio di essere sua madre… la “psicologa della mutua” che sentenzia superficialmente, giudica e valuta una relazione madre-figlia che mai potrà capire perché non l’ha mai vissuta, lei –“in integrata” non solo con l’assistente sociale, ma anche con il diabolico deus ex machina di tutta questa vicenda e l’altra psicologa/amica- ha fatto e disfatto, ricomposto dissidi e rapporti definiti “definitivamente compromessi” ma ha interrotto il rapporto tra me e i miei figli e poi, dopo lo strappo, ha sistematicamente fatto sì che la frattura si allargasse e la ferita si incancrenisse.

Mia figlia si è fidata di un’assistente sociale che come ha sempre dimostrato in ogni sua relazione è incapace di quella obiettività che il suo mandato le richiede, che sa solo schierarsi, che è totalmente incapace di empatia (guarda caso, un’altra non-madre!), che senza porsi il benché minimo problema, senza pensarci un solo attimo, violando ogni prassi e il buon senso, ha disposto un allontanamento assurdo e immotivato che mai e poi mai sarebbe dovuto essere effettuato (e ancora una volta non lo dico solo io, lo dice anche la legge che in questo caso è stata calpestata e di cui ancora oggi, dopo 27 mesi, non si vede traccia).

Ricordo e vedo solo ora sotto una luce ancora più sinistra quell'irridere alla mia preoccupazione in nuce fatta presente mesi prima alla “psicologa di fama”: “Ehhhh, queste mamme, non sono mai contente: non lo sono se mangiamo poco e non lo sono se mangiamo poco!”. Mi domando che cosa c’è da stupirsi e da ridicolizzare: certo, le mamme si preoccupano per i propri figli, quello devono fare quando percepiscono un pericolo!

Con queste “squallide stampelle” (che ovviamente si sono guardate bene dal discutere con me la faccenda, anzi… hanno lavorato indisturbate sotto traccia) mia figlia si è sentita forte, onnipotente, capace di allontanarsi da sua madre perché tanto c’era già qualcuno pronta ad accoglierla e a fagocitarla. La mia adolescente è arrivata forse per la prima volta ad odiarmi perché ero l’ostacolo al suo impellente e prioritario bisogno di diventare “bella e magra” (?), bisogno che per lei era vitale, e lo era a costo di mettere in pericolo la sua stessa vita. Si dice che spesso i rapporti esclusivi, quelli in cui l’amore è assoluto, diventino pericolosamente simbiotici e allora per permettere ad un adolescente di farsi “grande”, di conquistarsi i propri spazi di autonomia, di responsabilizzarsi tra inevitabili rischi, improvvise accelerate e brusche frenate, tra un ormeggio mollato e una forte folata di vento, tra un’onda anomala e un avventuroso ritorno in porto, allora sia quasi inevitabile dare uno strattone forte e perdere l’equilibrio. Si dice…

Quella sera, era il 1° Dicembre, mia figlia ha probabilmente fatto apposta a provocarmi rifiutando di mangiare perché aveva già pronto il piano ed era giunto il momento giusto: ha chiesto “aiuto” e l’”aiuto” è prontamente arrivato. Non aspettava altro!

Ripensandoci ora mi sembra tutto ovvio.

Drammaticamente e crudelmente ovvio.

Ecco la causa della conflittualità così improvvisa e plateale: serviva un contrasto tanto più violento (seppure con un pretesto insignificante) quanto più mia figlia era risoluta nel perseguire il suo fine (e i risultati mi confermano e “la premiano”…), uno scontro senza sconti perché in gioco c’era la sua assoluta necessità di diventare come crede che gli altri la vogliano, una necessità talmente pressante e improcrastinabile da meritare persino il distacco da me, dalla sua casa, dalle sue cose: a quell'impellenza ha sacrificato tutta se stessa e tutta me stessa. E nella sua lotta così cieca e determinata, così narcisistica e netta, nel suo sacrificio fatto di egoismo e delirio di onnipotenza ha trascinato anche suo fratello.

Del resto la stava aspettando a braccia aperte chi, senza figli, se li è procurati senza disturbare le sue nipoti (dove avrebbe ben potuto attingere a piene mani viste le inadeguatezze lampanti!), sacrificando me che non faccio parte del suo clan e, anzi, mi sono sempre contrapposta non nascondendo ciò che penso di loro, ora di TUTTI loro senza più alcun distinguo.


E ORA?

Ora non c’è più realtà, non c’è più luce, non c’è più vita: c’è solo un urlo profondo, ancestrale, che vorrebbe annientare tutto e lasciare solo il vuoto: non più tu, non più loro, niente più. Che senso ha sentirsi dire frasi che ti hanno già condannato, che ti inchiodano ad una realtà di fantasia, ti arrivano parole che conosci ma che non riesci a comprendere cosa c’entrino con te, che senti ma non accetti siano associate a te, ai tuoi figli, che rifiuti come sporche, oscene, maledette. Arrivi a pensare che sia solo un sogno, un brutto sogno, un incubo. Speri di svegliarti e di riaprire gli occhi ritrovando tutto al suo posto: i tuoi figli e i loro litigi, le stanze in disordine e i vestiti per terra, le prediche e le sgridate, le risate e le carezze, i brutti voti e le corse in palestra, le solite cotolette e i “ricordati la sciarpa”, gli sfoghi e le delusioni, i lavori di gruppo e le uscite con le amiche, le “rivendicazioni sindacali” e gli “uffa, che palle!”.

E invece NO. Assolutamente, disperatamente, implacabilmente, inesorabilmente NO. Non era un incubo, era la REALTÀ. Non era la realtà, È la realtà.

Per me è stata la MORTE e lì sono ancora: lì dove ho sentito l’arroganza di chi si attribuisce il potere di decidere sulla vita tua e dei tuoi figli, lì con chi ha agito una violenza gravissima che lascerà per sempre un segno in me e in loro. Meglio, molto meglio per me sarebbe stata una sentenza di morte; ho realizzato in un attimo che mi avevano svuotato la vita; da quel momento ho capito che nessuno mai mi ridarà la voglia di vivere e la fiducia negli altri.

Oltre alla mia sofferenza, c’è anche il DANNO! Il danno psicologico ed esistenziale che resterà per sempre, indelebile, nei miei figli. Immagino l’insicurezza, la paura che ne potrà derivare e che persisterà per tutta la vita, il senso di violenza, di ingerenza nella propria sfera intima, affettiva, lo strappo dalla loro casa, dalle loro cose, dalla loro mamma e –nel caso dei miei figli- anche dalle loro abitudini: ai miei figli, infatti, è stato fatto cambiare sport, amicizie, strumento musicale, abbigliamento, sono state prese decisioni relative alla loro salute senza che io ne fossi neppure a conoscenza. Mi si dirà che sono state scelte loro ma permettete che io non ci creda neppure per un attimo? Così come non credo che un cambiamento radicale delle proprie abitudini e del proprio ambiente sia utile e vantaggioso se si innesta in un completo stravolgimento come quello imposto ai miei figli! Immagino i sensi di colpa che vivranno quando, fuori da questo tunnel, si gireranno indietro e vedranno la loro mamma violentata e rinnegata nella sua autorevolezza, una madre devastata da un sistema che di sociale porta solo il nome e lo porta in modo arbitrario e vergognoso, che si fa mano armata di un altro sistema –quello giudiziario- che dovrebbe vivere ad altezza-uomo, farsi carico delle questioni che arrivano sulle sue scrivanie, mostrare un minimo interesse –se chiedere empatia e umanità è troppo- per i casi che ci si trova a trattare, “perdere tempo” a leggere i documenti depositati e, magari, interrogarsi sul perché quei documenti siano stati redatti, se per caso dietro quelle pagine si celi un dramma, un bisogno di ascolto e una richiesta di giustizia che sia compatibile con i tempi dell’esistenza umana poiché sentirsi riconoscere la ragione dopo anni che su quel fatto si sono fatte illazioni e si sono avanzati dubbi, dopo che si è creato tutto un sistema fantastico e che si è stati costretti a leggere sul tuo conto nefandezze inimmaginabili.

Io non ho trovato né umiltà, né umanità in questa giustizia ingiusta; il meglio in cui mi sia capitato di incocciare è stata l’indifferenza: pur di screditarmi si è arrivati ad attribuirmi episodi surreali che neppure un folle sotto tortura confesserebbe mai se si trovasse nella mia situazione e alla mia richiesta di presentare le prove di quanto affermato mi è stato risposto che non esistono prove, ma che quando sono arrabbiata perdo lucidità tanto da confessare cose che persino un poppante comprenderebbe essere deleterie per la sua posizione.

Il motivo? Poche parole standard, etichette e basta. Vuoto.

A quel punto o ti suicidi subito e lasci che il mondo vada tranquillamente avanti senza di te o cerchi di capire. Io oscillo tra queste due possibilità: finché riuscirò a sopportare di vivere cercherò di capire. Quando smetterò di sforzarmi di comprendere allora finirà anche la mia esistenza. O, quando la vita mi sarà insopportabile, arriverò ad arrendermi e non mi interesserà più capire. Il mio è un gioco a spallate tra la fatica di vivere e l’oblio della morte: chissà alla fine chi vincerà?

Nell’immediato a pochissimi ho raccontato cosa mi stava accadendo. Cosa dovevo dire? Cosa potevo rispondere al loro stupore, alla loro incredulità? A cosa mi serviva la loro solidarietà? E alle loro domande cosa potevo contrapporre se non silenzio, lacrime, dolore, rabbia, disperazione? C’è chi sta in silenzio, c’è chi continua a rivolgermi interrogativi, c’è chi non sa sopportare il mio strazio e chi ti chiede perché lo hai “lasciato fuori” dalla faccenda, perché non hai voluto condividere il tuo dolore. Cosa cambia? Nulla cambia. Nessuno riesce davvero a capire che tu non hai nulla da dire, nulla da dare, non un fatto, non un motivo. Nulla. Così come nulla ha chi ti accusa e ti ha dilaniato: nessuna prova, nessuna certezza, nessuna spiegazione oggettiva, solo sentenze a morte. Solo.

Purtroppo non è (ancora) il tempo della riscossa e la giustizia manca: manca a me e manca ai miei figli (inconsapevoli). Elencare gli errori, i soprusi, le incredibili scelte sarebbe lungo e inutile, le falsità prendono il posto della verità e la lealtà pare parola antica; la visuale si offusca e tutto si confonde in un mare magnum di superficialità e di crudele arroganza. Potrei fare –e l’ho fatto ormai tante volte- un lungo elenco di assurdità e chiedermi e chiedervi ogni volta “è giustizia questa?”. La risposta sarebbe sempre lo stesso monosillabo, un NO. Al mio NO dolente ho sempre sentito l’eco del NO incredulo degli altri, basta voler ascoltare ed entrare in empatia.

La giustizia in tutta questa storia non c’è. Ci sono solo carnefici e vittime.


I CARNEFICI

Nei verbali del Tribunale le tessere di questo puzzle prendono il loro giusto spessore: mentre l’assistente sociale si nasconde dietro ai “riferiti” della vecchia arpia e la “psicologa della mutua” balbetta le solite, vuote considerazioni non provate, assurde e schierate, chi emerge dallo sfondo è lei, sempre lei. È sempre la solita sterile vecchia che si vanta di conoscere tutte le psicologhe avendo “lavorato una vita” a loro stretto contatto, è lei che ha deciso che le telefonate concessemi con mio figlio dovessero essere in viva-voce per evitare che io MANIPOLASSI mio figlio, è lei che ha comunicato all'assistente sociale che “non era più disponibile” a farmi parlare una volta alla settimana con mio figlio, sempre lei che si vanta di aver fatto sospendere gli incontri protetti tra me e i miei figli, lei che descrive loro la mamma come una persona inadeguata, lei che non perde occasione per mettermi in cattiva luce, lei che dirige il gioco!

Questa vecchia immonda, dopo lo strappo indotto da mia figlia, ha iniziato la costante, sistematica, organizzata opera di annientamento della mente sua e di suo fratello: io cattiva, violenta, inadeguata, il padre un “cuscinone” affettuoso, certo un po’ in difficoltà ma per compensarlo c’era e c’è ovviamente sempre la sua parente-serpe che gestisce vita e menti come fossero numeri sulla tastiera di una calcolatrice, libera di farlo e talmente tronfia da non preoccuparsi neppure di rivelarlo apertamente, di vantarsene, di dare giudizi non richiesti pur di infangare me ed ergersi a paladina in difesa dei miei figli, quei figli che lei crede –non smentita da nessuno- siano ormai definitivamente suoi.

Illusa! Lei non è e non sarà mai madre e dovrà rispondere a me e ai miei figli dei danni provocatici. Eccome!


LE VITTIME

I miei figli ed io.

Ma anche –per chi ci crede ancora, non certo io- la giustizia.

Io e i miei figli abbiamo ad oggi perso 27 mesi di vita, di amore, di esperienze, di risate, di pianti, di sgridate, discussioni e riappacificazioni, noi tre abbiamo perso la nostra quotidianità e, di certo, la fiducia negli altri.

Chi ci restituirà quanto abbiamo perso?

Chi compenserà tutte queste perdite?

Chi pagherà per tutto questo dolore?

NESSUNO si è preoccupato di fermarsi a guardare indietro, NESSUNO si è curato di domandarsi se avesse sbagliato, quali conseguenze avesse innescato, su quali basi si fosse agito. NESSUN PROBLEMA: io e i miei figli solo pedine del folle progetto di una matta che, neppure tanto per ridare una “verginità perduta” al nipote (che in ogni caso non è comunque in grado di sostenerla!), quanto proprio per godersi due ragazzini che le facevano una gran voglia, ha tagliato nettamente e crudelmente il filo di una storia familiare.


UNA RIFLESSIONE

In tutta questa storia dove sono le figure maschili? Già, dove sono?

Mio figlio è stato preso nella rete della sorella e trascinato a fondo insieme a lei, incolpevole; negli interrogatori lui è stato ingenuamente più realista del re, ha scimmiottato la sorella ma poi si è perso in incongruenze e ingenuità. È un ragazzino che accusa la mamma di averlo picchiato (ma forse la mamma picchiava sua sorella, forse due volte, no, forse una sola…), quella stessa mamma che abbraccia, bacia e coccola quando gli è concesso incontrarla. Quella stessa mamma accusata di essere troppo affettuosa con lui… quanta cattiveria!!! Mi si stringe il cuore quando lo vedo tanto ingrassato e sul baratro del diabete grazie alle “amorevoli cure” del brutto-surrogato-di-madre e del padre: per lui ovviamente non può valere il discorso sul disturbo del comportamento alimentare da ascrivere alla madre; e allora come si spiega la sua obesità e i suoi problemi epatici? A chi dare la colpa questa volta? Era un bambino solare, il beniamino della sua classe, amato da tutti; due mesi dopo l’allontanamento dalla sua mamma, dalla sua casa, sradicato dalla sua vita, mio figlio è diventato aggressivo e maleducato: per la “psicologa della mutua” era un bambino “compresso”, che non esprimeva le sue emozioni… probabilmente dopo è stata soddisfatta.

L’altro uomo, il mio ex marito, non merita neppure di essere considerato tale. Non-marito, non-padre, non-uomo. Non è nulla di tutto ciò chi ti rovescia addosso sempre tutte le sue frustrazioni accumulate, che ti mette le mani addosso mentre hai tua figlia neonata in braccio, che insegnando a tua figlia le sue prime parole le sillaba “mamma troia” –così, per ridere!-, che ti svaluta sempre, che ti offende, che ti rimette le mani addosso in pubblico e sempre in presenza dei bambini una seconda volta e poi una terza. Non è nulla chi preferisce i suoi fallimentari progetti di vita ai suoi figli, chi porta i suoi bambini in un ambiente squallido, tra brutte persone, chi maltratta (e, a parte quella sessuale, non mi ha fatto mancare nessuna forma di violenza!) la madre dei suoi figli addirittura davanti a loro. Non è nulla chi si rende complice del più atroce dei crimini: strappare i figli ad una madre.

Se questo è un uomo?

tanto incapace ed insignificante (ma allo stesso tempo tanto dannoso e pericoloso) da doversi appoggiare sempre e comunque alle “donne” della sua famiglia e a quelle dei Servizi per farmi del male,

tanto inadeguato da perdere l’affido dei figli per sentenza del tribunale e tanto crudele da sfruttare il lavoro sporco della vecchia arpia e, approfittando della sua follia, riacquistalo senza saperlo di nuovo utilizzarlo al meglio,

tanto ignobile da aver convinto –ma nel “lavoro sporco” a livello di manipolazione sicuramente coadiuvato, se non da altri, di certo dalla sua squallida parente- sua figlia a ritrattare l’ultimo episodio di violenza compiuto su di me davanti a lei, proprio mentre il tribunale lo condannava per lo stesso reato,

tanto ignobile da non rendersi conto -dire “non sapere” è troppo comodo!- che deformando i ricordi di sua figlia per piegarli alla sua versione (peraltro smentita persino dai Carabinieri e dalla sua stessa figlia shoccata e impaurita nell'immediatezza dei fatti) le procurerà ulteriori danni rinnovando una violenza ancora più raffinata e pericolosa, quella psicologica.

INFINE

Questa è una storia di un’associazione a delinquere dove tante… donne (che fatica scrivere questo nome pensando a chi non merita affatto questo nome) hanno aiutato un… uomo (uguale sforzo e un’esigenza stringente di turarmi il naso) a rubare i figli alla madre che li ha cresciuti, a violare e sporcare un legame intimo e dolcissimo, a maltrattare ancora una volta –nel modo più subdolo possibile- quei figli che sconfortati mi avevano detto:

“Mamma, non piangere, non preoccuparti,

tutto il male che papà ci poteva fare, ce l’ha già fatto”


Se questo è un uomo?

Se queste sono donne?

Se queste sono le persone/le professionalità/le istituzioni a cui ci dovremmo affidare?

Se questa è giustizia?

Se questa è umanità?

Se questo non è rapimento, non è violenza, non è maltrattamento, non è ALIENAZIONE?

Infine resta la SOFFERENZA ATROCE che provo ogni istante della giornata, che brucia ad ogni respiro, che comprime il cervello e si fa insopportabile quando penso al DANNO che è stato perpetrato, che si sta portando avanti, che chissà come e se finirà: il DANNO provocato ai miei figli, a me e al nostro legame. Il dolore per la lontananza dai miei figli è per me indicibile, non so spiegarlo a parole, posso urlarlo fino a spezzarmi le corde vocali, posso piangerlo fino a non avere più lacrime, gli occhi vuoti, fiammeggianti.


Grazie

UNA MAMMA ALIENATA


Indice

In questo racconto della mia vita ho lasciato fuori finora un termine che però è il fulcro di tutto quanto mi sta accadendo e allora, siccome il mio dramma vorrei potesse aiutare a far luce su un fenomeno gravissimo e dilagante, credo che –almeno in nota- sia utile parlarne. L’ALIENAZIONE PARENTALE (correggendo il tiro rispetto all’aggettivo “genitoriale” troppo restrittivo perché l’alienazione si espande a macchia d’olio e coinvolge tutto il ramo parentale e amicale del genitore rifiutato) che, come la definisce il DSM-V, non è una patologia individuale (quindi la S della tanto discussa PAS è caduta): non si tratta infatti di una “sindrome” ma una disfunzione. La classificazione diagnostica definisce infatti la A.P. come un problema relazionale genitore/bambino, una dinamica familiare “malata” che danneggia in primis i minori coinvolti in una triangolazione che li segnerà a vita e avrà affetti transgenerazionali come ormai tanta letteratura scientifica sul tema segnala.

Sui mass media quando si parla di alienazione si tende a generalizzare affermando che è un fenomeno che riguarda soprattutto (quasi esclusivamente) i padri. Detto che per quanto io li cerchi non riesco a trovare dati percentuali attendibili, è comunque incontrovertibile che il numero delle madri vittime di queste situazioni strazianti sia in crescita. Ora, al di là di quanti padri e di quante madri subiscono l’alienazione, credo che il dolore di ognuno di noi valga UNO e abbia un identico peso –per questo quindi preferisco parlare di genitori- ed è ovvio che i nostri figli alienati subiscano un identico danno irrimediabile sia che siano vittime delle madri (che avendo di norma la domiciliazione hanno magari maggior tempo per manipolare i figli ma hanno anche il ruolo faticoso e spesso spiacevole di educare dando regole e dicendo scomodi “no”), sia che lo siano dei padri (che, se hanno meno tempo da trascorrere con i figli, spesso però a loro sono riservati momenti di svago, di divertimento e magari l’occasione di esaudire qualche piacevole capriccio). Quello che qui conta è, piuttosto che una querelle sessista inutile –anzi dannosa visto che fin qui, tenendoci separati e contrapponendo un genere all'altro si è solo fatto il gioco di un sistema relazionale ed istituzionale malato!-, denunciare le dinamiche malate che portano un genitore a vendicarsi sull'altro USANDO strumentalmente i figli.

I comportamenti e le caratteristiche di questo abuso che rende i figli “orfani di un genitore vivo” sono ormai codificati e riconosciuti ma, vivendo questa situazione in prima persona da ormai 23 mesi e avendo una preparazione specifica in materia (oltre il danno, la beffa!), ho avuto modo di riflettere a lungo su questo abuso che sistematicamente si presenta in fase separativa quando la separazione è conflittuale. Io mi sento di definire l’alienazione parentale come la nuova frontiera della violenza endofamiliare o come violenza domestica 3.0. Dopo la violenza tra adulti (e anche qui non ne faccio una questione di genere perché se gli uomini sono di norma più colpevoli della forma di violenza fisica, le donne forse sono più capaci di attivare una violenza di tipo psicologico; il problema è piuttosto che di tutta la declinazione della violenza domestica nei tribunali si tiene conto solo di quella fisica, meglio se giunge alle estreme conseguenze con un omicidio) e la violenza assistita (che in Italia non è purtroppo ancora un reato a sé ma al massimo un’aggravante della violenza fisica) che coinvolge i figli come astanti, trascinati in vicende traumatiche di cui restano comunque ancora (!!!) testimoni passivi, ora si sta diffondendo sempre di più –in verità sta diventando una triste costante delle separazioni conflittuali!- questa terribile ultima, frontiera della violenza familiare nella quale i figli sono usati fino a diventare soggetti attivi di maltrattamento. I figli nell'alienazione parentale si schierano con uno dei genitori e –plagiati, comprati, circuiti, ingannati da questo- si scagliano con una violenza terribile contro l’altro genitore. Questi figli sono tenuti sotto ricatto dal genitore alienante cui lo lega un conflitto di lealtà di cui è difficile prendere coscienza (di un genitore ti fidi e, se ti accorda libertà, ti garantisce assenza di regole, se ti compra con regali, allora è facile farsi trascinare dalla sua parte) e da cui è pressoché impossibile affrancarsi. Per questi figli è facile tratteggiare un presente e prevedere un futuro di grave dissociazione psichica, danni biologici irreparabili (esiste letteratura scientifica sul tema) e un rischio suicidiario doppio rispetto alla norma. Per i figli alienati è inoltre enorme il rischio di trasmissione intergenerazionale di queste dinamiche perverse. Chissà cosa e come vivono questi figli apparentemente sicuri di sé, esteriormente felici e senza dubbi, decisi e risoluti nell'accusare il genitore rifiutato (il rito delle false accuse è un dramma nel dramma perché il genitore alienato oltre a morire ogni giorno per il rifiuto e la lontananza del figlio, si deve anche difendere da denunce penali gravissime –maltrattamenti o abusi sessuali per lo più-) lo strappo dalla loro mamma/dal loro papà? Io non lo so, non posso neppure immaginarlo. Alcune amiche che stanno vivendo il riavvicinamento dei loro figli descrivono ragazzi devastati, che esprimono un amore infinito verso la mamma ma anche una sofferenza terribile, a volte un rifiuto altrettanto assoluto del genitore alienante, altre volte un’alternanza di affetto e bisogno che trasmuta in rabbia e chiusura.

Sara De Ceglia



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